Belfast è una di quelle città che secondo me, o ci vieni apposta perché sei esperto di storia irlandese, o come tutti gli altri ci fai un'escursione di un giorno da Dublino, o magari ti conviene volarci.
Questo era ciò che pensavamo quando abbiamo deciso di cominciare da lì il nostro viaggio irlandese: volo diretto da Alicante, perché no? Qualcosa da vedere ci sarà.
Io non so se con il programma di storia del liceo non ci siamo mai arrivati a quella ferita lacerante d'Europa, succedeva quando non ero nata, ma anche quando vivevo ancora in Italia e leggevo ancora i giornali, eppure chissà perché non ho mai capito il perché di certe canzoni, tipo Zombie o Sunday Bloody Sunday. Che ora le risentissi non canterei, me ne starei in silenzio.
Abbiamo scelto Belfast per caso e per caso ci ha accolte un couchsurfer canadese, Sam, che a Belfast ci vive da 15 anni e che ha vissuto e fotografato e filmato i conflitti e il dolore. E ricorda le macchine date alle fiamme, i bambini a giocare fra le macerie di una città non ricostruita, con la polizia a fare da barriera fra un quartiere e l'altro, e poi chi non c'è più.
E quelle che erano telecamere di controllo in una zona di confine ora sono dipinte e il suo quartiere hanno cercato di rinnovarlo, ma io ho negli occhi altri graffiti e murales che il passato non lo hanno lasciato andare.
E che parlano di morti innocenti, di madri piangenti, e di armi, di fame, di povertà.
Non sono qui per fare una lezione di storia, non ne so abbastanza, anche se durante e dopo il viaggio ne ho letto parecchio, a colmare un vuoto che mi faceva sentire quasi colpevole. Soprattutto dopo la frase di un anziano, che ci ha fermate quando eravamo in una zona (cattolica) e dopo averci spiegato il significato di murales e bandiere, ci ha ricordato cosa significasse la bandiera dell'Irlanda.
Il verde i cattolici.
L'arancione i protestanti.
Il bianco la pace.
Che non c'è mai stata.
E noi ingenue che cercavamo il muro della pace, e ci immaginavamo un muretto, con qualche altro graffito, ma magari di quelli più belli, meno violenti, meno difficili da digerire.
Bocciata in storia, bocciata in conoscenza del mondo.
Pensi a un muro e immagini quello di Berlino, o pensi alla Palestina. Magari al Messico, o alle barriere nelle spagnolissime Ceuta e Melilla in Marocco.
Come se il mondo finisse là.
Poi cammini cammini e i murales diventano sempre più cupi, sempre più politicizzati, sempre più grida sul cemento.
Cammini e cammini e non c'è nessuno per strada, e pioviccica e fa quel freddo che ti entra nei polmoni e ti affatica la respirazione.
Cammini e cammini, perché non ti quadrano le indicazioni della cartina che dice che il muro è più in là. E alla fine giri un angolo ed è come un pugno nello stomaco.
E ti vengono le lacrime agli occhi, come ce le ho di nuovo ora, a pensare alla violenza e alla stupidità degli uomini.
Altro che muretto di pace, il muro è un muro, alto, metallico, tutto intero. Freddo. Anche se sta uscendo il sole.
Pensi a quanto poco sai, a quanto dolore ci deve essere stato.
A quante persone sono morte in quello stesso tratto di strada.
Il silenzio è irreale, ti senti minacciata, ti senti in pericolo dentro.
Come se fossi stata nascosta tu, dietro un muro, a fare la turista e a prenderti la pioggia in una città che lo vedi nella tristezza degli occhi della gente e in quel grigio che ci metterà ancora chissà quanto a riprendersi.